mercoledì 10 marzo 2021

UNA SENTENZA DEL TAR TOSCANA ANNULLA LA PROROGA DA PARTE DEL COMUNE DELLE CONCESSIONI DEMANIALI MARITTIME AVENTI FINALITA' TURISTICO RICREATIVE


Com'è noto le concessioni demaniali marittime sono divenute un terreno di scontri legali ad alto livello.
Il caso più recente è quello del Comune di Piombino che con determinazione dirigenziale del 21 maggio 2020, n. 408, avente per oggetto "Concessioni demaniali marittime aventi finalità turistico ricreative. Legge 30/12/2018, n. 145, art. 1, commi n. 682, n. 683, n. 684.Determinazione in esecuzione delle disposizioni legislative per l'estensione della scadenza al 31/12/2033", ha ritenuto di adottare un atto meramente esecutivo della proroga legislativa automatica delle concessioni demaniali in essere fino al 2033, di cui all’articolo unico, commi 682 e ss., l. 30 dicembre 2018, n. 145.
Un privato cittadino ha segnalato la determinazione all'Autorità Garante della concorrenza e del Mercato la quale ha fatto presente al Comune che avrebbe dovuto disapplicare la legge richiamata alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia Europea (C-458/14 e C-67/15).
Poiché il Comune ha confermato la propria posizione contro detto provvedimento l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha presentato ricorso al TAR della Toscana.
Il Collegio giudicante (TAR Firenze, Sez. II) ha argomentato quanto segue:
Come è noto, prima ancora della nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 (in cause riunite C-458/14, Promoimpresa S.r.l. e C-67/15, Mario Melis e altri), la giurisprudenza aveva già largamente aderito all’interpretazione dell’art. 37 cod. nav. che privilegia l’esperimento della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, sanciti dalla direttiva 123/2016, essendo pacifico che tali principi si applicano anche a materie diverse dagli appalti, in quanto riconducibili ad attività, suscettibile di apprezzamento in termini economici.
In tal senso si era espresso, già da tempo risalente, il Consiglio di Stato che ha ritenuto applicabili i detti principi “anche alle concessioni di beni pubblici, fungendo da parametro di interpretazione e limitazione del diritto di insistenza di cui all' art. 37 del codice della navigazione”, sottolineandosi che “la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione”(cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2005 n. 168 e, nello stesso senso, in epoca più recente Cons. Stato, Sez. VI, 31 gennaio 2017 n. 394).
Detti principi sono stati riaffermati dalla Corte di Giustizia UE, nella nota sentenza Sez. V, 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, ad avviso della quale “L'articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”.
Da tale sentenza, si desume che la proroga ex lege delle concessioni demaniali aventi natura turistico-ricreativa non può essere generalizzata, dovendo la normativa nazionale ispirarsi alle regole della Unione europea sulla indizione delle gare.
La Corte di Giustizia, più specificamente, chiamata a pronunciarsi sulla portata dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE (cd. Bolkestein) del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (direttiva servizi), ha affermato, in primo luogo, che le concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo rientrano in linea di principio nel campo di applicazione della suindicata direttiva, restando rimessa al giudice nazionale la valutazione circa la natura “scarsa” o meno della risorsa naturale attribuita in concessione, con conseguente illegittimità di un regime di proroga ex lege delle concessioni aventi ad oggetto risorse naturali scarse, regime ritenuto equivalente al rinnovo automatico delle concessioni in essere, espressamente vietato dall’art. 12 della direttiva.
In secondo luogo, la Corte di giustizia ha affermato che, per le concessioni alle quali la direttiva non può trovare applicazione, l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) osta a una normativa nazionale, come quella italiana oggetto dei rinvii pregiudiziali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo.
Pertanto, in seguito alla soppressione, in ragione delle disposizioni legislative sopra richiamate, dell’istituto del “diritto di insistenza”, ossia del diritto di preferenza dei concessionari uscenti, l’amministrazione che intenda procedere a una nuova concessione del bene demaniale marittimo con finalità turistico-ricreativa, in aderenza ai principi eurounitari della libera di circolazione dei servizi, della par condicio, dell’imparzialità e della trasparenza, ai sensi del novellato art. 37 cod. nav., è tenuta ad indire una procedura selettiva e a dare prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico.
A fronte dell’intervenuta cessazione del rapporto concessorio, come sopra già evidenziato, il titolare del titolo concessorio in questione può vantare un mero interesse di fatto a che l’amministrazione proceda ad una nuova concessione in suo favore e non già una situazione qualificata in qualità di concessionario uscente, con conseguente inconfigurabilità di alcun obbligo di proroga ex lege o da parte dell’amministrazione.
Ne deriva che l’operatività delle proroghe disposte dal legislatore nazionale non può che essere esclusa in ossequio alla pronuncia del 2016 del giudice eurounitario, come già stabilito dal Consiglio di Stato, sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874, con riferimento, sia alle proroghe disposte dall'art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009 e dall'art. 34-duodecies, d.l. 179/2012, e, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall'art. 1, comma 547, l. 24 dicembre 2012, n. 228, sia alla proroga legislativa automatica delle concessioni demaniali in essere fino al 2033, disposta dall’articolo unico, comma 683, l. 30 dicembre 2018, n. 145.
Di talché, come chiaramente statuito dal Consiglio di Stato con la sentenza appena citata, la proroga legale delle concessioni demaniali in assenza di gara “non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento”.
Nel caso di specie, deve dunque trovare applicazione la Direttiva 2006/123/CE (c.d. “Direttiva Servizi”), il cui art. 12 prevede chiaramente che «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento» (par. 1) e che, in tali casi, «l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami» (par. 2).
Tale Direttiva è espressiva di norme immediatamente precettive – in particolare, sotto il profilo della precisa e puntuale “norma di divieto” che si rivolge, senza che occorra alcuna disciplina attuativa di sorta da parte degli Stati membri, a qualunque ipotesi (tanto più se generalizzata e incondizionata come nel caso di specie) di proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di procedura di selezione tra i potenziali candidati. E rispetto a tale “norma di divieto”, indiscutibilmente dotata di efficacia diretta, il diritto interno è necessariamente tenuto a conformarsi.
Invero, come chiarito dalla recente sentenza del Consiglio di Stato n. 7874 del 2019 cit., a fronte di una disposizione interna contrastante con l’ordinamento comunitario “la non applicazione della disposizione interna contrastante con l'ordinamento comunitario costituisce un potere-dovere, per il giudice, che opera anche d'ufficio (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2018 n. 1219 e, prima ancora, Corte Casss., 18 novembre 1995 n. 11934), al fine di assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie, aventi un rango preminente rispetto a quelle dei singoli Stati membri. Infatti la pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia crea l'obbligo del giudice nazionale di uniformarsi ad essa e l'eventuale violazione di tale obbligo vizierebbe la sentenza secondo la disciplina dell'ordinamento interno e, al contempo, darebbe luogo a una procedura di infrazione nei confronti dello stato di cui quel giudice è organo (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 3 maggio 2019 n. 2890).
Tale dovere sussiste indipendentemente dal fattore temporale e quindi dalla mera circostanza che la norma interna confliggente sia precedente o successiva a quella comunitaria (cfr. Corte giust. 9 marzo 1978, causa 106/77).
Allo stesso modo, le statuizioni della Corte di Giustizia, le quali chiariscono il significato e la portata di una norma del diritto dell'Unione, possono e devono essere applicate anche a casi diversi rispetto a quelli oggetto del rinvio, aventi le stesse caratteristiche di quello che ha dato origine alla decisione della Corte (cfr. Corte Cost., ord. 23 giugno 1999 n. 255 e 23 aprile 1985 n. 113; Cass., Sez. I, 28 marzo 1997 n. 2787).
Occorre poi rammentare, in particolare con riferimento al caso qui in esame, che è ormai principio consolidato in giurisprudenza quello secondo il quale la disapplicazione (rectius, non applicazione) della norma nazionale confliggente con il diritto eurounitario, a maggior ragione se tale contrasto è stato accertato dalla Corte di giustizia UE, costituisca un obbligo per lo Stato membro in tutte le sue articolazioni e, quindi, anche per l'apparato amministrativo e per i suoi funzionari, qualora sia chiamato ad applicare la norma interna contrastante con il diritto eurounitario (cfr., pressoché in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 23 maggio 2006 n. 3072, ma a partire da Corte costituzionale 21 aprile 1989 n. 232, e in sede europea da Corte di Giustizia della Comunità europea, 22 giugno 1989, C- 103/88 Fratelli Costanzo, nonché Corte di Giustizia dell'Unione europea 24 maggio 2012, C-97/11 Amia).
Qualora, pertanto, emerga contrasto tra la norma primaria nazionale o regionale e i principi del diritto eurounitario, è fatto obbligo al dirigente che adotta il provvedimento sulla base della norma nazionale (o regionale) di non applicarla (in contrasto con la norma eurounitaria di riferimento), salvo valutare la possibilità di trarre dall'ordinamento sovranazionale una disposizione con efficacia diretta idonea a porre la disciplina della fattispecie concreta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2018 n. 1342)”.
Tali principi, tutti pienamente condivisi dal Collegio, costituiscono ormai stabili acquisizioni della giurisprudenza amministrativa e sono stati di recente unanimemente ribaditi, in cause aventi analogo oggetto, da: T.A.R. Pescara, n. 40/2021; T.A.R. Salerno, n. 265/2021, T.A.R. Catania, n. 505/2021; T.A.R. Veneto n. 218/2020.
Peraltro, anche la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 10 del 29 gennaio 2021, in relazione ad una norma di legge regionale che prevedeva un meccanismo di rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime già esistenti, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, affermando fra l’altro, che tale meccanismo di rinnovo sottrarrebbe le concessioni “alle procedure a evidenza pubblica conformi ai principi, comunitari e statali, di tutela della concorrenza… per consentire de facto la mera prosecuzione dei rapporti concessori già in essere, con un effetto di proroga sostanzialmente automatica – o comunque sottratta alla disciplina concorrenziale – in favore dei precedenti titolari. Un effetto, come poc’anzi rammentato, già più volte ritenuto costituzionalmente illegittimo da questa Corte”.
I controinteressati deducono inoltre che la Direttiva non sarebbe applicabile a concessioni sorte prima della scadenza del termine per la sua trasposizione. Tale argomentazione è però infondata. Infatti, innanzitutto, la determinazione qui impugnata n. 408/2020, nel dare attuazione alla disciplina di cui ai commi 682 e 683 della l. n. 145/2018, non distingue tra concessioni sorte prima o dopo il suddetto termine ma è riferita a tutte le concessioni in essere al momento dell’entrata in vigore della l. n. 145/2018. In ogni caso, l’applicabilità della Direttiva europea non può dipendere dall’epoca del rilascio concessioni, dovendo trovare applicazione il principio tempus regit actum, e dovendo il provvedimento amministrativo di proroga essere esaminato alla luce della disciplina anche eurounitaria vigente (cfr. T.A.R. Pescara, n. 40/2021).
Dunque, una volta accertato che le concessioni in esame rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, è possibile affermare che - come sancito dalla citata sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15 - il rilascio delle stesse è necessariamente subordinato all’espletamento di una procedura di selezione tra potenziali candidati, che deve presentare garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità.
Deve pertanto ritenersi che la proroga disposta dall’Amministrazione resistente e la conseguente decisione di non dar corso alla procedura comparativa, siano state disposte in aperta violazione del divieto di applicazione dell’art. 1, commi 682 e 683 della legge n. 145 del 2018.
Per tali ragioni il TAR ha ritenuto che la determina impugnata sia illegittima e l'ha annullata con sentenza n. 363 pubblicata l'8 marzo 2021.

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