L’articolo 1, comma 611 prevede che le regioni, le provincie, i comuni, le camere di commercio, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali, con decorrenza dal 1° gennaio 2015, attivino un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute. Preliminarmente la norma riconferma il contenuto dell’art. 3, commi da 27 a 29 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria per il 2008) così come modificata dalla legge 147/2013 ( legge di stabilita per il 2014). Viene di conseguenza ribadito che al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni pubbliche elencate nell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi che non siano strettamente necessarie per il conseguimento delle proprie finalità istituzionali. Esse non possono assumere o mantenere direttamente partecipazioni in tali società strumentali. A distanza di sette mesi la situazione non è molto cambiata e non risulta che molti Comuni si siano impegnati.
Con una deliberazione del 22 luglio scorso la sezione Autonomie della Corte dei Conti ha esaminato la situazione delle società partecipate dei Comuni italiani.
Come si legge dal comunicato stampa della Corte, il quadro di sintesi rappresentato nell’indagine svolta dalla Sezione delle autonomie della Corte dei conti si avvale, oltreché della banca dati SIQUEL della Corte dei conti, anche dei dati raccolti dalle Sezioni regionali di controllo, nell’ambito della verifica del rispetto degli equilibri di bilancio degli enti proprietari e della valutazione dei piani operativi di razionalizzazione delle partecipate previsti dalla legge di stabilità 2015.
Dalle informazioni inserite nel SIQUEL emerge che solo il 17,55% dei comuni (1.414 su 8.057) non è in possesso di partecipazioni in società/organismi. Le analisi sui risultati economici e finanziari, sui servizi affidati e sulle modalità di affidamento hanno riguardato un insieme omogeneo di 4.935 organismi sui 7.684 risultanti al 19 giugno 2015, dei quali sono presenti a sistema i dati di bilancio relativi all’esercizio 2013. Gli organismi operanti nell’ambito dei servizi pubblici locali sono numericamente limitati (il 35,72% del totale), pur rappresentando una parte importante del valore della produzione (il 71,35% dell’importo complessivo). Il maggior numero (64,28%) rientra nelle diversificate attività definite “strumentali”. In questo contesto emerge la netta prevalenza degli affidamenti in house, fenomeno meritevole di attenzione per la rigidità dei presupposti legittimanti, tesa ad evitare violazioni delle regole della concorrenza. La relazione dedica particolare attenzione alla distribuzione geografica delle partecipazioni dirette, degli affidamenti e delle relative spese, con spunti di riflessione sul collegamento tra l’esternalizzazione dei servizi di interesse generale e la comunità amministrata e, per quelli strumentali, sull’inerenza dell’attività in concreto svolta alle funzioni dell’ente affidante. È emersa la presenza di partecipazioni (nonché di affidamenti e spese) anche fuori regione, ma il fenomeno non è generalizzato. L’indagine mette a confronto i risultati conseguiti dagli organismi interamente pubblici (n. 1.782) con quelli del totale esaminato (n. 4.935). A livello aggregato si registra una netta prevalenza degli organismi in utile; in alcune regioni le perdite d’esercizio risultano in larga misura superiori agli utili, al netto delle imposte, soprattutto per gli organismi interamente pubblici. Del pari, negli organismi a totale partecipazione pubblica sono stati rilevati valori medi più elevati di incidenza del costo del personale sul costo della produzione, 28,28%, a fronte del dato complessivo medio del 21,83%. La gestione finanziaria dimostra una netta prevalenza dei debiti sui crediti, in tutti gli organismi esaminati. L’elaborazione del quoziente di indebitamento mostra, peraltro, un andamento non uniforme da regione a regione, con rapporti superiori all’unità nella maggioranza dei casi.
Nelle partecipazioni pubbliche al 100%, il rapporto crediti/debiti verso controllanti, è sbilanciato in favore dei primi. Ciò evidenzia la forte dipendenza delle partecipazioni totalitarie dagli enti controllanti, pur in presenza di un rilevante indebitamento verso terzi.
Quanto alle spese, il referto evidenzia che i flussi finanziari tra enti proprietari ed organismi partecipati sono prevalentemente relativi all’affidamento di servizi; numerosi sono anche i trasferimenti ad altro titolo (in conto esercizio, straordinari ed in conto capitale) e gli oneri a copertura delle perdite, nonché gli aumenti/acquisizioni di capitale per cause diverse.
Dall’analisi di dettaglio degli organismi partecipati da unico socio pubblico (502 organismi) emerge, nella gran parte dei casi, che le risorse complessivamente impegnate e pagate dagli enti proprietari tendono a coincidere con l’importo dei valori della produzione degli organismi destinatari delle erogazioni. Ciò a ragione della proprietà interamente pubblica, che rende marginale la quota di fatturato prodotta da commesse provenienti dal mercato.
In taluni casi, l’eccedenza degli oneri per contratti di servizio sul valore della produzione può essere parzialmente giustificata dal risultato di esercizio negativo e dalla necessità di copertura delle perdite o di ricostituzione del capitale sceso sotto il limite legale. In altri casi, cospicue erogazioni sono associate a bilanci in utile e, pertanto, appaiono di difficile interpretazione.
Il Consiglio di Stato a sua volta con la sentenza n. 1842/2015 ha sancito che Quando un'azienda speciale svolge per il Comune un servizio senza il completo recupero dei costi sull'utenza, la stessa non opera secondo un unico e rigoroso criterio di economicità e ciò connota, indubbiamente, l'azienda stessa come un ente pubblico non economico. È vero che in linea di principio un ente pubblico è di natura economica se produce, per legge e per statuto, beni o servizi con criteri di economicità, ossia con equivalenza almeno tendenziale tra costi e ricavi, ma un ente pubblico è o no economico in base alla disciplina legale e statutaria che ne regola l'attività con riferimento agli scopi, non rilevando l'oggetto dell'attività stessa.
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