La recentissima sentenza del
TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1305/2015 apre una porta a tutti quegli
amministratori che vogliono uscire da società partecipate che gestiscono
servizi pubblici a livello regionale o provinciale esercitando il diritto di
recesso.
Un diritto esercitato come
strumento degli enti pubblici per la dismissione delle partecipazioni
societarie ritenute non strategiche (o non indispensabili).
Secondo il TAR è legittima la
scelta di un ente di esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 1 c.
569 della l. n. 147/2013, chiedendo la liquidazione delle proprie azioni
secondo quanto previsto dall'art. 2437-ter del c.c.
La legge di stabilità 2015 non
imponeva infatti l’uscita obbligatoria degli enti pubblici dalle società che
gestiscono servizi pubblici, chiedendo solo una razionalizzazione.
Se la direzione della politica
legislativa è chiara nel senso della riduzione di queste partecipazioni, la
ricostruzione delle modalità di perseguimento di tale obiettivo si presenta più
complessa, a causa del carattere frammentario e non ancora assestato della
normativa.
In generale, si possono
comunque individuare due approcci legislativi, uno finalizzato a liberalizzare
il mercato, rimuovendo rendite di posizione e conflitti di interessi, e uno
finalizzato a restringere il perimetro dell’intervento pubblico nelle attività
economiche. Il primo non è pregiudizialmente contrario alla figura dell’ente
pubblico imprenditore, purché in condizioni di parità con gli altri operatori
economici, il secondo forza invece gli enti pubblici ad abbandonare o a
limitare la partecipazione diretta alle attività economiche, in quanto
considera questo impegno come una fonte di sprechi o una distrazione rispetto
ai compiti amministrativi.
Un esempio del primo
orientamento può essere individuato nella disciplina sulle società strumentali
introdotta dall’art. 13 del DL 223/2006. Questa norma stabilisce per le società
strumentali, che ricevono affidamenti diretti dagli enti pubblici, un modello
legale con una serie di stringenti limitazioni: (a) devono operare
esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti; (b) non
possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né
in affidamento diretto né con gara; (c) non possono partecipare ad altre
società o enti aventi sede nel territorio nazionale; (d) sono a oggetto sociale
esclusivo; (e) devono cedere a terzi le attività non consentite oppure
scorporarle, anche costituendo una separata società. L’evoluzione di questo
modello è contenuta nei commi 7 e 8 dell’art. 4 del DL 95/2012, i quali,
rispettivamente, impongono agli enti pubblici di acquisire sul mercato i beni e
i servizi strumentali alla propria attività mediante procedure concorrenziali,
e consentono l'affidamento diretto solo a favore di società a capitale
interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e
dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house.
Restano esclusi dall’art. 13
del DL 223/2006 i servizi pubblici, in quanto area già aperta alla concorrenza
e contendibile mediante gara. Gli enti pubblici possono quindi avere
partecipazioni in società che concorrono per l’affidamento di servizi pubblici,
con il solo divieto di fornire a tali società aiuti di Stato, e salva la
possibilità di optare per la gestione in house (v. TAR Brescia Sez. II 21
febbraio 2013 n. 196; TAR Brescia Sez. II 22 aprile 2014 n. 415).
Un esempio del secondo
orientamento è contenuto nell’art. 3 comma 27 della legge 244/2007, che non si
limita a regolare le società strumentali, o a ricondurle nello schema
dell’affidamento in house, ma vieta agli enti pubblici di assumere o conservare
partecipazioni azionarie quando le stesse non siano strettamente necessarie per
il perseguimento delle finalità istituzionali. Così impostata, la norma ha
un’estensione molto ampia, e può essere riferita a tutte le società
partecipate, comprese quelle che si occupano di servizi di interesse generale
(ossia di servizi pubblici). La specificazione che segue immediatamente, ossia
l’inciso sull’ammissibilità delle partecipazioni in società che producono
servizi di interesse generale, individua una facoltà, non un obbligo. In altri
termini, la norma pone un principio (la tendenziale coincidenza tra
partecipazioni azionarie e funzioni istituzionali), ma quando si tratta di
servizi pubblici lascia alle singole amministrazioni ogni valutazione circa
l’estensione dei rispettivi interessi istituzionali, con il solo limite che non
vengano superati i livelli di competenza stabiliti dalla legge.
Questa scelta normativa appare
ragionevole sotto due profili. In primo luogo, il legislatore statale rinuncia
a entrare nel dettaglio delle varie tipologie di società, evitando di esporsi a
censure di legittimità costituzionale a proposito dell’autonomia organizzativa
regionale. Il rischio di subire queste censure è elevato, come dimostra la
sentenza della Corte Costituzionale n. 229 del 23 luglio 2013, che ha annullato
i commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies e 8 dell’art. 4 del DL 95/2012
proprio a causa della pervasività della disciplina sulla liquidazione delle
società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni.
In secondo luogo, viene rispettato il tradizionale principio in base al quale
gli enti locali, avendo fini generali, possono individuare autonomamente i
servizi pubblici da promuovere per aumentare il benessere delle comunità
rappresentate.
Se il legislatore statale non
impone direttamente l’uscita degli enti pubblici dalle società che gestiscono
servizi pubblici, non esprime nemmeno una qualche opposizione a tale ipotesi, e
certamente non costringe le pubbliche amministrazioni a rimanere prigioniere
delle società partecipate. Una volta che l’ente pubblico, esercitando la
propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza
nel capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una
situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie
estranee alle finalità istituzionali. Di qui l’applicabilità dell’art. 3 comma
29 della legge 244/2007, il cui intervallo temporale è peraltro scaduto, ma è
stato poi riaperto dall’art. 1 comma 569 della legge 147/2013.
Lo strumento del recesso non è
richiamato nella legislazione successiva (v. art. 1 commi 611 e 612 della legge
190/2014). Tale normativa, tuttavia, ribadisce e amplia l’obbligo per gli enti
pubblici di rivedere e razionalizzare le partecipazioni azionarie, eliminando
quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali. Da un
lato, infatti, sono espressamente confermate le procedure descritte nell’art. 3
commi 27-29 della legge 244/2007 e nell’art. 1 comma 569 della legge 147/2013,
dall’altro è previsto l’obbligo di elaborare un piano operativo di
razionalizzazione delle partecipazioni societarie, con la fissazione di
modalità e tempi di attuazione, e l’individuazione in dettaglio dei risparmi da
conseguire. Il riferimento ai risparmi conferma indirettamente la legittimità
delle dismissioni basate su esigenze di cassa, tenendo conto che il
concretizzarsi di una voce di entrata riduce la necessità di indebitamento
complessivo per finanziare altri investimenti.
Il fatto che nell’art. 1 commi
611 e 612 della legge 190/2014 non sia richiamata la facoltà di recedere, e di
ottenere così la liquidazione delle azioni, non sembra costituire un ostacolo
all’estensione di questo strumento in via interpretativa. Quando è ammesso il
recesso, infatti, la liquidazione è certa, trattandosi di un diritto del socio
riconosciuto e regolato dal codice civile, e viene conseguita indipendentemente
dalla composizione sociale e dalla quota detenuta. Se invece non vi fosse la possibilità
di recedere, e parallelamente la procedura di vendita delle azioni andasse
deserta, l’unico modo per uscire dalla società sarebbe il consenso di tutti gli
altri soci, con esiti variabili a seconda delle circostanze concrete (maggiore
o minore peso all’interno del capitale sociale, accordi tra enti pubblici con
partecipazioni azionarie). In presenza di soci privati, inoltre, la
dismissione, pur corrispondendo a un interesse pubblico, sarebbe subordinata a
valutazioni di natura privatistica. Tutto questo vanificherebbe l’obiettivo
fissato dal legislatore, e in definitiva costringerebbe l’ente pubblico a
rimanere associato a un rischio di impresa che non corrisponde più alle proprie
finalità istituzionali.
Di conseguenza, il recesso
appare come l’elemento che riporta in equilibrio la procedura di abbandono
delle partecipazioni azionarie non strategiche.
Leggete qui il testo integrale della sentenza:
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=ORFRJCNICN6MWI3QGQFV6PCIBQ&q=