martedì 20 ottobre 2015

UN COMUNE PUO' RECEDERE DA UNA SOCIETA' PARTECIPATA


La recentissima sentenza del TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1305/2015 apre una porta a tutti quegli amministratori che vogliono uscire da società partecipate che gestiscono servizi pubblici a livello regionale o provinciale esercitando il diritto di recesso.
Un diritto esercitato come strumento degli enti pubblici per la dismissione delle partecipazioni societarie ritenute non strategiche (o non indispensabili).
Secondo il TAR è legittima la scelta di un ente di esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'art. 1 c. 569 della l. n. 147/2013, chiedendo la liquidazione delle proprie azioni secondo quanto previsto dall'art. 2437-ter del c.c.
La legge di stabilità 2015 non imponeva infatti l’uscita obbligatoria degli enti pubblici dalle società che gestiscono servizi pubblici, chiedendo solo una razionalizzazione.
Se la direzione della politica legislativa è chiara nel senso della riduzione di queste partecipazioni, la ricostruzione delle modalità di perseguimento di tale obiettivo si presenta più complessa, a causa del carattere frammentario e non ancora assestato della normativa.
In generale, si possono comunque individuare due approcci legislativi, uno finalizzato a liberalizzare il mercato, rimuovendo rendite di posizione e conflitti di interessi, e uno finalizzato a restringere il perimetro dell’intervento pubblico nelle attività economiche. Il primo non è pregiudizialmente contrario alla figura dell’ente pubblico imprenditore, purché in condizioni di parità con gli altri operatori economici, il secondo forza invece gli enti pubblici ad abbandonare o a limitare la partecipazione diretta alle attività economiche, in quanto considera questo impegno come una fonte di sprechi o una distrazione rispetto ai compiti amministrativi.
Un esempio del primo orientamento può essere individuato nella disciplina sulle società strumentali introdotta dall’art. 13 del DL 223/2006. Questa norma stabilisce per le società strumentali, che ricevono affidamenti diretti dagli enti pubblici, un modello legale con una serie di stringenti limitazioni: (a) devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti; (b) non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara; (c) non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale; (d) sono a oggetto sociale esclusivo; (e) devono cedere a terzi le attività non consentite oppure scorporarle, anche costituendo una separata società. L’evoluzione di questo modello è contenuta nei commi 7 e 8 dell’art. 4 del DL 95/2012, i quali, rispettivamente, impongono agli enti pubblici di acquisire sul mercato i beni e i servizi strumentali alla propria attività mediante procedure concorrenziali, e consentono l'affidamento diretto solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house.
Restano esclusi dall’art. 13 del DL 223/2006 i servizi pubblici, in quanto area già aperta alla concorrenza e contendibile mediante gara. Gli enti pubblici possono quindi avere partecipazioni in società che concorrono per l’affidamento di servizi pubblici, con il solo divieto di fornire a tali società aiuti di Stato, e salva la possibilità di optare per la gestione in house (v. TAR Brescia Sez. II 21 febbraio 2013 n. 196; TAR Brescia Sez. II 22 aprile 2014 n. 415).
Un esempio del secondo orientamento è contenuto nell’art. 3 comma 27 della legge 244/2007, che non si limita a regolare le società strumentali, o a ricondurle nello schema dell’affidamento in house, ma vieta agli enti pubblici di assumere o conservare partecipazioni azionarie quando le stesse non siano strettamente necessarie per il perseguimento delle finalità istituzionali. Così impostata, la norma ha un’estensione molto ampia, e può essere riferita a tutte le società partecipate, comprese quelle che si occupano di servizi di interesse generale (ossia di servizi pubblici). La specificazione che segue immediatamente, ossia l’inciso sull’ammissibilità delle partecipazioni in società che producono servizi di interesse generale, individua una facoltà, non un obbligo. In altri termini, la norma pone un principio (la tendenziale coincidenza tra partecipazioni azionarie e funzioni istituzionali), ma quando si tratta di servizi pubblici lascia alle singole amministrazioni ogni valutazione circa l’estensione dei rispettivi interessi istituzionali, con il solo limite che non vengano superati i livelli di competenza stabiliti dalla legge.
Questa scelta normativa appare ragionevole sotto due profili. In primo luogo, il legislatore statale rinuncia a entrare nel dettaglio delle varie tipologie di società, evitando di esporsi a censure di legittimità costituzionale a proposito dell’autonomia organizzativa regionale. Il rischio di subire queste censure è elevato, come dimostra la sentenza della Corte Costituzionale n. 229 del 23 luglio 2013, che ha annullato i commi 1, 2, 3, secondo periodo, 3-sexies e 8 dell’art. 4 del DL 95/2012 proprio a causa della pervasività della disciplina sulla liquidazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni. In secondo luogo, viene rispettato il tradizionale principio in base al quale gli enti locali, avendo fini generali, possono individuare autonomamente i servizi pubblici da promuovere per aumentare il benessere delle comunità rappresentate.
Se il legislatore statale non impone direttamente l’uscita degli enti pubblici dalle società che gestiscono servizi pubblici, non esprime nemmeno una qualche opposizione a tale ipotesi, e certamente non costringe le pubbliche amministrazioni a rimanere prigioniere delle società partecipate. Una volta che l’ente pubblico, esercitando la propria discrezionalità, abbia qualificato come non più strategica la presenza nel capitale di società affidatarie di servizi pubblici, si verifica una situazione equivalente al divieto di conservare partecipazioni azionarie estranee alle finalità istituzionali. Di qui l’applicabilità dell’art. 3 comma 29 della legge 244/2007, il cui intervallo temporale è peraltro scaduto, ma è stato poi riaperto dall’art. 1 comma 569 della legge 147/2013.
Lo strumento del recesso non è richiamato nella legislazione successiva (v. art. 1 commi 611 e 612 della legge 190/2014). Tale normativa, tuttavia, ribadisce e amplia l’obbligo per gli enti pubblici di rivedere e razionalizzare le partecipazioni azionarie, eliminando quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali. Da un lato, infatti, sono espressamente confermate le procedure descritte nell’art. 3 commi 27-29 della legge 244/2007 e nell’art. 1 comma 569 della legge 147/2013, dall’altro è previsto l’obbligo di elaborare un piano operativo di razionalizzazione delle partecipazioni societarie, con la fissazione di modalità e tempi di attuazione, e l’individuazione in dettaglio dei risparmi da conseguire. Il riferimento ai risparmi conferma indirettamente la legittimità delle dismissioni basate su esigenze di cassa, tenendo conto che il concretizzarsi di una voce di entrata riduce la necessità di indebitamento complessivo per finanziare altri investimenti.
Il fatto che nell’art. 1 commi 611 e 612 della legge 190/2014 non sia richiamata la facoltà di recedere, e di ottenere così la liquidazione delle azioni, non sembra costituire un ostacolo all’estensione di questo strumento in via interpretativa. Quando è ammesso il recesso, infatti, la liquidazione è certa, trattandosi di un diritto del socio riconosciuto e regolato dal codice civile, e viene conseguita indipendentemente dalla composizione sociale e dalla quota detenuta. Se invece non vi fosse la possibilità di recedere, e parallelamente la procedura di vendita delle azioni andasse deserta, l’unico modo per uscire dalla società sarebbe il consenso di tutti gli altri soci, con esiti variabili a seconda delle circostanze concrete (maggiore o minore peso all’interno del capitale sociale, accordi tra enti pubblici con partecipazioni azionarie). In presenza di soci privati, inoltre, la dismissione, pur corrispondendo a un interesse pubblico, sarebbe subordinata a valutazioni di natura privatistica. Tutto questo vanificherebbe l’obiettivo fissato dal legislatore, e in definitiva costringerebbe l’ente pubblico a rimanere associato a un rischio di impresa che non corrisponde più alle proprie finalità istituzionali.
Di conseguenza, il recesso appare come l’elemento che riporta in equilibrio la procedura di abbandono delle partecipazioni azionarie non strategiche.
Leggete qui il testo integrale della sentenza:
https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=ORFRJCNICN6MWI3QGQFV6PCIBQ&q=

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