Il Comune di Mantova, collocato da alcuni anni al primo posto delle classifiche per la qualità della vita e per la difesa dell'ambiente ha vinto una causa avanti al Consiglio di Stato contro una società che gestisce sale da gioco e che aveva presentato ricorso avverso un provvedimento con il quale il Sindaco aveva stabilito gli orari di apertura delle sale da gioco.
Un esempio che dovrebbero prendere molti Sindaci.
Queste le premesse:
a) il Comune di Mantova aveva regolamentato con la ordinanza n. PS 50/39/2015 del 10 marzo 2015 gli orari di esercizio delle sale giochi autorizzate ex art. 86 TULPS e del funzionamento degli apparecchi con vincita in denaro di cui all’art. 110, comma 6, del medesimo testo unico, prevedendo, in caso di violazione, sanzioni amministrative pecuniarie e, in caso di particolare gravità e recidiva, la sanzione accessoria della sospensione dell’attività per un periodo da uno a cinque giorni;
b) a seguito di controlli effettuati nei locali gestiti dalla ricorrente, era stato accertato il funzionamento degli apparecchi con vincita in denaro in orari non consentiti dalla ricordata ordinanza sindacale, così che erano state applicate le sanzioni pecuniarie ed anche la sanzione della sospensione dell’attività, stante la recidiva (ordinanza n. 204/2016);
c) non poteva dubitarsi la sussistenza del potere del Comune di regolamentare gli orari di esercizio delle sale giochi autorizzate e del funzionamento degli apparecchi con vincita in denaro;
d) la disposizione dell’art. 10 del TULPS (R.D. 18 giugno 1931, n. 773), secondo cui “Le autorizzazioni di polizia possono essere revocate o sospese in qualsiasi momento, nel caso di abuso della persona autorizzata”, era utilizzabile non solo dal Questore per abuso di licenze di pubblica sicurezza, ma anche dall’amministrazione comunale per sanzionare ipotesi di abuso delle licenze di somministrazione di alimenti e bevande;
e) conseguentemente l’impugnata sanzione della sospensione, irrogata dall’amministrazione a seguito della accertata e reiterata violazione - non contestata - delle prescrizioni relative agli orari di funzionamento degli apparecchi con vincita in denaro, era legittima in quanto trovava adeguata copertura in una in fonte di rango primario; erano sotto questo profilo infondate le censure di violazione del principio di legalità ex art. 1 legge n. 689 del 1981 e dell’art. 23 della Costituzione, aggiungendo che la sospensione contestata era disgiunta dalla sanzione pecuniaria ed era prevista per ipotesi di particolare gravità e recidiva, come nel caso in esame.
Queste le argomentazioni del collegio giudicante:
Ciò premesso in punto di fatto deve osservarsi che le problematiche concernenti la disciplina degli orari di apertura e funzionamento delle sale gioco autorizzate costituiscono un terreno particolarmente sensibile e delicato nel quale confluiscono e devono essere adeguatamente misurati una pluralità di interessi, sia privati (dei gestori delle predette sale che, in quanto titolari di una concessione con l’amministrazione finanziaria e di una specifica autorizzazione di polizia, tendono a perseguire la massimizzazione dei loro profitti per ottenere la remunerazione dei loro investimenti economici attraverso la più ampia durata giornaliera dell’apertura dell’esercizio, invocando i principi costituzionali di libertà di iniziativa economica e di libera concorrenza e sul piano più strettamente il principio dell’affidamento, ingenerato proprio dal rilascio dei titoli, concessorio e autorizzatorio, necessari alla tenuta delle sale da gioco), sia soprattutto pubblici e generali, non contenuti in quelli economico – finanziari (tutelati dalla concessione) o relativi alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica (tutelati dall’autorizzazione questorile), ma estesi anche alla quiete pubblica (in ragione dei non improbabili disagi derivanti dalla collocazione delle sale gioco in determinate zone cittadine più o meno densamente abitate a causa del possibile congestionamento del traffico o dell’affollamento dei frequentatori) e alla salute pubblica, quest’ultima in relazione al pericoloso fenomeno, sempre più evidente, della ludopatia.
Investita, tra l’altro, della questione della legittimità costituzionale (sollevata dal TAR Piemonte) della questione di legittimità costituzionale – con riferimento agli artt. 32 e 118 della Costituzione - degli artt. 42 e 50, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 167, nonché dell’art. 31, comma 2, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 241, nella parte in cui tali disposizioni non prevedono la competenza dei Comuni ad adottare atti normativi e provvedimentali volti a limitare l’uso degli apparecchi da gioco di cui al comma 6 dell’art. 110 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, in ogni esercizio a ciò autorizzato ai sensi dell’art. 86 dello stesso r.d. n. 773 del 1931, la Corte Costituzionale con la sentenza 18 luglio 2014, n. 220, nel dichiararla inammissibile, ha sottolineato che “…l’evoluzione della giurisprudenza amministrativa, sia di legittimità, sia di merito, ha elaborato un’interpretazione dell’art. 50, comma 7, del d. lgs. n. 267 del 2000, compatibile con i principi costituzionali evocati, nel senso di ritenere che la stessa disposizione censurata fornisca un fondamento legislativo al potere sindacale in questione”, evidenziando che in forza della generale previsione del predetto art. 50, comma 7, “…il sindaco può disciplinare gli orari delle sale giochi e degli esercizi nei quali siano istallate apparecchiature per il gioco e che ciò può fare per esigenze di tutela della salute, della quiete pubblica, ovvero della circolazione stradale”.
Nella predetta sentenza la Corte ha anche osservato, sotto altro concorrente profilo, che “…il potere di limitare la distribuzione sul territorio delle sale da gioco attraverso l’imposizione di distanze minime rispetto ai cosiddetti luoghi sensibili, potrebbe altresì essere ricondotto alla potestà degli enti locali in materia di pianificazione e governo del territorio, rispetto al quale la Costituzione e la legge ordinaria conferiscono al Comune le relative funzioni”, non mancando di richiamare al riguardo l’avviso di questo Consiglio di Stato secondo cui “l’esercizio del potere di pianificazione non può essere inteso solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma deve essere costruito come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti (sentenza n. 2710 del 2012).
Ancora la Corte Costituzionale con la sentenza 11 maggio 2017, n. 108, investita della questione di legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 117, commi secondo, lett. h) e terzo, della Costituzione, dell’art. 7 della legge regionale della Puglia 13 dicembre 2013, n. 43 (recante “Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico GAP”) nella parte in cui vieta il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di sale da gioco e all’installazione di apparecchi da gioco nel caso di ubicazione a distanza inferiore a cinquecento metri pedonali dai cosiddetti luoghi sensibili ivi indicati, ha tra l’altro evidenziato che “…il legislatore pugliese non è intervenuto per contrastare il gioco illegale, né per disciplinare direttamente le modalità di installazione e di utilizzo degli apparecchi da gioco leciti e nemmeno per individuare i giochi leciti: aspetti che – come posto in evidenza dalle citate sentenze n. 72 del 2010 e n. 237 del 2006 – ricadono nell’ambito della materia <<ordine pubblico e sicurezza>>, la quale attiene alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso quale <<complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi primari sui quali si regge la civile convivenza nella comunità nazionale>>, ma piuttosto per “…evitare la prossimità delle sale degli apparecchi da gioco a determinati luoghi, ove si radunano soggetti ritenuti psicologicamente più esposti all’illusione di conseguire vincite e facili guadagni e, quindi, al rischio di cadere vittime della “dipendenza da gioco d’azzardo”. Ha rilevato la sentenza che “la disposizione in esame persegue, pertanto, in via preminente finalità di carattere socio – sanitario, estranee alla materia della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, e rientranti piuttosto nella materia della legislazione concorrente <<tutela della salute pubblica>> (art. 117, terzo comma, Cost.), nella quale la regione può legiferare nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale”. Ha ancora aggiunto che non è decisivo, ai fini di escludere la competenza legislativa regionale nel caso di specie la circostanza “…che la norma censurata inciderebbe su esercizi commerciali, quali quelli che accettano scommesse, soggetti al controllo dell’autorità di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 88 del TULPS – controllo finalizzato alla prevenzione dei reati e alla tutela dell’ordine pubblico – finendo, così, per interferire indebitamente con questo stesso regime autorizzatorio. La norma regionale si muove su un piano distinto da quello del TULPS. Per quanto si è detto, essa non mira a contrastare i fenomeni criminosi e le turbative dell’ordine pubblico collegati al mondo del gioco e delle scommesse, ma si preoccupa, <<piuttosto, delle conseguenze sociali dell’offerta dei giochi su fasce di consumatori psicologicamente più deboli>>, segnatamente in termini di prevenzione di <<forme di gioco cosiddetto compulsivo>> (sentenza n. 300 del 2011). In quest’ottica, la circostanza che l’autorità comunale, facendo applicazione della disposizione censurata, possa inibire l’esercizio di una attività pure autorizzata dal questore….non implica alcuna interferenza con le diverse valutazione demandate all’autorità di pubblica sicurezza”.
Anche la giurisprudenza amministrativa in materia ha ormai univocamente chiarito che la previsione contenuta nell’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000, ha carattere generale, riconoscendo pertanto al sindaco il potere di disciplinare gli orari delle sale da gioco o di accensione e spegnimento degli apparecchi durante l'orario di apertura degli esercizi, in cui i medesimi sono installati, puntualizzando che un simile potere non interferisce con quello degli organi statali preposti alla tutela dell'ordine e della sicurezza, atteso che la competenza di questi ha ad oggetto rilevanti aspetti di pubblica sicurezza, mentre quella del Sindaco concerne in senso lato gli interessi generali della comunità locale, con la conseguenza che le rispettive competenze operano su piani diversi e non è configurabile alcuna violazione dell'art. 117, comma 2, lett. h), Cost. (Cons. Stato, 1° agosto 2015, n. 3778; Consiglio di Stato, sez. V, 20 ottobre 2015, n. 4784; 22 ottobre 2015, n. 4861; in tema di distanze delle sale da gioco dai c.d. luoghi sensibili, Cons. Stato, V, 27 giugno 2017, n. 3138).
Sulla scorta della delineata evoluzione giurisprudenziale deve ammettersi che, come già in precedenza accennato, nella materia dei giochi e delle scommesse lecite sussistono, oltre agli interessi tipicamente privati sopra evidenziati, una pluralità di interessi pubblici e generali, che possono essere individuati in quello dell’interesse economico – finanziario ed alla corretta gestione della concessione; in quello alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, finalizzato alla prevenzione dei reati, ricollegabile all’autorizzazione questorile; in quello alla quiete pubblico ed alla tutela della salute e più in generale complessivamente ad un ambiente cittadino salubre.
La tutela di tali diversi interessi risulta congruamente affidata a diversi poteri pubblici (l’amministrazione finanziaria per quanto riguarda l’aspetto concessorio; l’autorità di pubblica sicurezza – questore, per quanto riguarda l’aspetto autorizzatorio; l’autorità sindacale per quanto riguarda la salubrità dell’ambiente cittadino) che non confliggono tra loro proprio per le diversità finalità che essi perseguono e cui le rispettive competenze sono orientate.
Così delineato il complesso sistema di tutela degli interessi pubblici e generali che insistono nella materia dei giochi e scommesse ed evidenziato in capo al sindaco, ai sensi dell’art. 50, comma 7, del D. Lgs. n. 267 del 2000, il potere di disciplinare l’orario di apertura delle sale da gioco e di funzionamento degli apparecchi con vincite in danaro, con la precisazione che tale disciplina si riferisce all’aspetto della tutela della quiete pubblica e della salute pubblica (c.d. interesse ad un ambiente cittadino salubre), così da non interferisce con (ed anzi essere estraneo al) diverso profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica (che attiene alla prevenzione dei reati e la cui tutela appartiene al questore), deve logicamente e giuridicamente affermarsi la sussistenza anche di un corrispondente potere sanzionatorio, che sia effettivo e dunque non meramente simbolico o sproporzionato, in modo da garantire l’effettività della stessa disciplina sindacale; così come permane in capo ad esso l’ordinario potere di amministrativa attiva, vale a dire di cura diretta dell’interesse pubblico con le misure che possano di volta in volta essere più convenienti.
Invero una disciplina imperfetta, da un lato senza alcuna proporzionata sanzione e dell’altro senza – al contempo – misure di cura diretta dell’interesse pubblico, negherebbe da un lato la cogenza soggettiva delle prescrizioni, dall’altro l’essenza della funzione amministrativa che prescinde dai comportamenti indebiti e che è orientata oggettivamente a curare l’interesse pubblico. Il che tradirebbe lo sforzo ricostruttivo operato dal giudice delle leggi e dalla giurisprudenza amministrativa di riconoscere in capo al sindaco – nell’ambito del potere sindacale di ordinanza di cui all’art. 50, comma 7, del D. Lgs. n. 267 del 2000 - il potere/dovere di tutelare l’interesse alla salubrità dell’ambiente cittadino (sub specie di interesse alla quiete pubblica e interesse alla salute pubblica) e sotto un profilo sistematico istituzionale di fatto irrazionalmente negherebbe (e su un terreno così sensibile e delicati quale quello in questione) la capacità che la legge attribuisce ai sindaci per dare espressione all’interesse generale dei cittadini e della idoneità dell’autorità comunale di cogliere, apprezzare, garantire e tutelare i precipui interessi del territorio.
Proprio per la necessità di un’azione complessiva di realizzazione effettiva di quanto appena detto, la sanzione dev’essere ragionevole, efficace, dotata di un sicuro carattere afflittivo e dunque di deterrenza.
Ma per quanto concerne la cura effettiva e concreta dell’interesse pubblico la mera sanzione pecuniaria amministrativa non appare e non è uno strumento di suo sufficiente a realizzare davvero l’interesse cui presiede: se la sanzione, in rispetto del principio di legalità, trova adeguata e sicura copertura nell’art. 7 bis, comma 2, del D. Lgs. n. 267 del 2000, a tenore del quale “La sanzione amministrativa di cui al comma 1 si applica anche alle violazioni alle ordinanze adottate dal sindaco e dal presidente della provincia sulla base di disposizione di legge, ovvero di specifiche norme regolamentari”, resta d’altra parte evidente che la mera sanzione pecuniaria prevista dal citato comma 1 dell’art. 7-bis (“Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro”) non spieghi alcun reale effetto ripristinatorio delle oggettive esigenze pubbliche poste dalle ordinanze sindacali sugli orari di apertura delle sale da gioco e scommesse e sul funzionamento degli apparecchi con vincita in danaro: del resto a nessuno sfugge che, se tutto si riducesse e si limitasse alla detta sanzione, fatalmente sarebbe agevolata una logica strettamente economica del rapporto costi/benefici, sicché il medio concessionario o titolare di sala giochi o degli apparecchi con vincite in danaro sarebbe facilmente indotto ad assumere il rischio e il relativamente tenue costo per la violazione dell’ordinanza sindacale consistente nel solo pagare la sanzione amministrativa (di importo mediamente assai contenuto) a fronte di un più elevato guadagno derivante dall’utilizzo della sala gioco o dal funzionamento degli apparecchi da gioco: conseguendo così gli inammissibili effetti pratici di una sanatoria a modesto onere economico. Non v’è chi non veda come un siffatto risultato anziché realizzare, neghi alla radice la cura dell’interesse pubblico.
Deve dunque riconoscersi la necessità, sotto il profilo logico – sistematico, che la reiterata violazione della disciplina sindacale degli orari di apertura delle sale da gioco e di funzionamento degli apparecchi con vincite in danaro, sia accompagnata da una misura ulteriore e diversa dalla sanzione pecuniaria: una misura, cioè, di cura diretta dell’interesse pubblico, che prescinda dal soggetto e che guardi all’oggetti, e che vada ad incidere direttamente e immediatamente sull’attività (del gioco e del funzionamento degli apparecchi di gioco), sospendendola per un tempo ragionevole, adeguato e idoneo.
Una tale misura – che a ben vedere esprime un potere di amministrazione attiva perché è a cura diretta e immediata dei detti interessi della collettività prima ancora che a retribuzione di una condotta individuale che li lede - ben può dalla discrezionalità comunale essere individuata, come avvenuto nel caso di specie, nella preannunciata sospensione dell’attività per un periodo massimo di cinque giorni, tempo che risulta significativo, adeguato e proporzionato, idoneo ad un tempo a garantire un reale effetto di deterrenza ed il carattere di afflittività, contemperando in modo non irragionevole l’interesse sanzionatorio dell’autorità sindacale ed il principio della libertà d’iniziativa economica
Rispetto a tale misura occorre tuttavia verificare il rispetto del principio di legalità e cioè se la sua previsione, da parte dell’ordinanza sindacale, sia garantita da una previsione di rango legislativo che l’ammette.
Al riguardo, ad avviso della Sezione, l’esercizio di una sala giochi e scommesse o di un locale con apparecchi con vincite in danaro (muniti ovviamente della regolare autorizzazione questorile) ben rientra nella categoria delle “sale pubbliche da bigliardi o per altri giuochi leciti” che ai sensi del comma 1, dell’art. 86 del T.U.L.P.S. (r.d. 18 giugno 1931, n. 773) “…non possono esercitarsi senza licenza del questore…”.
L’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 616 del 1977 (“Attuazione della delega di cui all’art. 1 della l. 22/7/1975, n. 382) ha poi attribuito ai Comuni le funzioni di cui al T.U.L.P.S., tra cui al n. 8) “la licenza per alberghi, compresi quelli diurni, locande, pensioni, trattorie, osterie, caffè ed altri esercizi in cui si vendono o consumano bevande non alcooliche, sale pubbliche per biliardi o per altri giuochi leciti, stabilimenti di bagni, esercizi di rimessa di autoveicoli o di vetture e simili di cui all’art. 86”.
Il quarto comma del predetto articolo 19 ha previsto che “I provvedimenti di cui ai numeri 5), 6), 7), 8), 9), 11), 13), 14), 15) e 17) sono adottati previa comunicazione al prefetto e devono essere sospesi, annullati o revocati per motivata richiesta dello stesso”, ma al riguardo deve sottolinearsi che la Corte Costituzionale con la sentenza 24 marzo 1987, n. 77, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto quarto comma nella parte in cui non limita i poteri del prefetto, ivi previsti, esclusivamente alle esigenze di pubblica sicurezza, nonché del successivo quinto comma.
Per completezza deve rilevarsi che l’art. 164 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (“Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59” ha poi abrogato: c) l'articolo 19, comma 1, numero 3), del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616; d) l'articolo 19, comma 4, del medesimo decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, nella parte in cui prevede la comunicazione al prefetto e i poteri di sospensione, revoca e annullamento in capo a quest'ultimo in ordine: all'articolo 19, comma 1, numero 13), in materia di licenza agli stranieri per mestieri ambulanti; all'articolo 19, comma 1, numero 14), in materia di registrazione per mestieri ambulanti; all'articolo 19, comma 1, numero 17), in materia di licenza di iscrizione per portieri e custodi, fermo restando il dovere di tempestiva comunicazione al prefetto dei provvedimenti adottati.
Per effetto di tale passaggio di funzioni (dall’autorità di pubblica sicurezza ai Comuni) avviene, sotto il profilo logico – sistematico, che a questi ultimi siano transitati anche i poteri sanzionatori previsti dal T.U.L.P.S., utilizzabili evidentemente in presenza di violazione delle discipline specifiche che attengono alla tutela degli interessi pubblici diversi da quello dell’ordine della sicurezza pubblica (in tal senso in generale, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2003, n. 7777, secondo cui il potere di sospensione delle licenze per pubblici esercizi attribuiti ai Comuni dall’art. 19, comma 4, del D.P.R. n. 616 del 1977 deve ritenersi esercitabile nei soli casi in cui la sospensione della licenza trovi giustificazione in ragioni diverse da quelle attinenti alla tutela dell’ordine pubblico; ancora sez. IV, 6 giugno 1997, n. 625; sez. V, 24 novembre 1992 n. 1376).
Tra tali poteri rientra a pieno titolo anche quello della sospensione del titolo in caso di abuso dell’autorizzazione, come previsto dall’art. 10 del T.U.L.P.S., a tenore del quale “Le autorizzazioni di polizia possono essere revocate o sospese in qualsiasi momento, nel caso di abuso della persona autorizzata”.
Un tale abuso si connette non a questioni attinenti all’ordine o alla sicurezza pubblica, bensì a quegli altri interesse pubblici generali tutelati dall’autorità comunale mediante il rilascio dell’autorizzazione, perché funzione dell’autorizzazione stessa è di garantire il corretto esercizio dell’attività autorizzata. La giurisprudenza ha precisato che anche la mera violazione delle modalità di svolgimento del servizio autorizzato costituisce abuso cui può conseguire la sospensione ex art. 10, giacché l’autorizzazione deve essere utilizzata conformemente alle prescrizioni contenute nella legge e nelle altre varie fonti sub – primarie e la loro violazione costituisce un uso anomalo e quindi un abuso del titolo (Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2010, n. 7185; secondo la più risalente, ma non meno significativa giurisprudenza, gli abusi che legittimano la revoca o la sospensione di una licenza di polizia [nel caso di specie si trattava di commercio di preziosi] non consistono solo nell’uso della stessa per scopi diversi da quelli per i quali il titolo è stato rilasciato, ma anche nel dispregio delle prescrizioni e delle regole procedurali che il titolare è tenuto ad osservare, Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 1992, n. 674).
Sulla scorta delle osservazioni svolte e tenuto conto che del resto l’appellante non ha contestato il fatto posto a fondamento, né la ragionevolezza e la congruità della sospensione, l’appello deve essere respinto,
Qui la sentenza integrale: