sabato 15 aprile 2017

UNA VOLTA CHE IL COMUNE HA ACQUISITO UN IMMOBILE ABUSIVO AL PROPRIO PATRIMONIO DEVE SEMPRE PROCEDERE ALLA DEMOLIZIONE?

Le opere abusive devono sempre essere demolite? La domanda è stata posta al Consiglio di Stato, Sezione VI che con la sentenza n.1770  del 9 marzo, depositata il 13 aprile scorso, ha ritenuto in particolare quanto segue: 
La norma  prevista dall'art. 31 del DPR 380/2001  a chiusura di un articolato sistema sanzionatorio suscettibile di operare a fronte di edificazioni non legittime e non altrimenti recuperabili alla legittimità a favore dei privati – palesemente offre una via di uscita (consentendo, di fatto, alla mano pubblica ciò che non è permesso alla parte privata) rispetto alla soluzione finale della demolizione dell’edificazione abusiva, permettendo che – questa volta in mano pubblica – l’edificazione non legittima resti pur sempre in situ.
La norma, perché il vantaggio (unilaterale, in quanto possibile solo alla mano pubblica) si determini effettivamente, pone peraltro dei requisiti destinati a fungere da presupposto all’evento (sussistenza di prevalenti interessi pubblici; mancanza di contrasto dell’edificazione, pur sempre abusiva, con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico).
Della ricorrenza di questi presupposti arbitro è l’ente locale (giacchè è lo stesso ad auto individuarli) ma, per l’eventualità di errori od indulgenze, al privato controinteressato resta in ogni caso la residua difesa di poterne dimostrare l’insussistenza.
In un ordinamento nel quale la non consumazione del territorio, specie mediante edificazioni non legittime, costituisse valore assoluto, o, quanto meno, di grado sufficientemente elevato, quella norma non avrebbe motivo di essere, posto che allora la reintegrazione del territorio – mediante eliminazione di quanto l’ha non correttamente consumato – dovrebbe da esso essere pretesa senza eccezioni per alcuno.
Non così nel nostro, all’evidenza, dove invece quella norma funge da strumento di sostanziale redenzione dalla colpa (costituita dall’avvenuta edificazione non legittima), con l’unica attenuante data dal fatto che il perdono (a livello sostanziale ed oggettivo) non si risolva in vantaggio del singolo, autore della colpa, bensì dell’intera collettività.
Per l’effetto, l’integrità del territorio leso non risulta comunque ricostituita. Di contro, delle risultanze della lesione (l’edificazione non legittima) gode un’intera comunità.
La norma può essere giudicata diversamente, a seconda dei punti di vista. Essa tuttavia è sufficientemente chiara nel suo dettato e nella sua portata, e, per di più, è frutto di un’opzione legislativa (invero, detto incidentalmente, l’art. 31 del predetto T.U. – che è un corpo normativo misto, ossia formato da disposizioni, che si dividono il campo, di rango diverso – è di natura primaria).
Nella specie, l’ente locale ha trovato il “prevalente interesse pubblico” nella soluzione di incapsulare in parte del piano terra dell’edificio non legittimo (per il resto costituito, per quanto consta, da un condominio a tutti gli effetti) uffici pubblici, destinati per loro natura alla fruizione collettiva.
Per certi versi intuibilmente, con tale soluzione l’ente locale ha anche risolto un problema non secondario, di cui non s’è fatto carico il contenzioso pregresso: dove ricollocare i privati proprietari delle unità immobiliari sovrastanti detto piano terra.
Non avendo il precedente contenzioso affrontato la questione di una eventuale demolizione parziale dell’edificio non legittimo, forse possibile (ma la questione non è in alcun modo possibile che venga qui affrontata, ora, dati anche gli accadimenti processuali nel frattempo verificatisi), sta di fatto che i titoli giudiziari susseguitisi (anche per come, evidentemente, le avverse difese si sono via via articolate) avrebbero condotto alla necessità di una demolizione complessiva dello stabile, anche nelle parti già compravendute fra privati e divenute abitazioni.
Se questo – sul piano tuttavia della mera ipotesi – può dare una spiegazione alla circostanza che il privato edificatore, pur ingiunto a demolire, non l’abbia fatto, lo stesso, per altro verso, può indurre a ritrovare una giustificazione remota al fatto che neanche l’ente locale si sia sobbarcato il tema della sorte dei condomini che sarebbero rimasti privi della loro abitazione.
Grazie alla norma anzidetta e alla soluzione concreta individuata dal Comune, un punto d’equilibrio, nel bilanciamento di sopravvenute emergenze, è stato pur sempre trovato.
La parte controinteressata al mantenimento dell’edificio reputa che il “prevalente interesse pubblico”, idoneo a legittimare la soluzione del Comune e la redenzione dell’edificato, nella specie non sussista, postulando che, invece, detta soluzione sia priva di valide ragioni se non quelle (che valide però non sarebbero, a suo avviso) di non volere comunque demolire l’edificio.
Soprattutto, ad avviso di parte, sarebbero inefficaci, giacchè di facciata, le spiegazioni date dal Comunque, ossia che la soluzione di inserire uffici pubblici al piano terreno dell’edificio comporterebbe risparmi pubblici, facendo evitare i costi della demolizione e quelli di una locazione passiva – in assenza di disponibilità altre idonee proprietà pubbliche – altrimenti necessaria per dare una sede agli uffici così dislocati.
Al riguardo, le argomentazioni dell’ente locale, riferite a tali, evitate, componenti di spesa, non risultano però – nella fattispecie – la base giustificativa del “prevalente interesse pubblico” (che consente al Comune di non procedere alla demolizione in danno dell’autore della costruzione non legittima), valendo esse piuttosto quali derivate logiche e fenomeniche (anche alquanto scontate) della vera decisione assunta dall’ente locale, ossia quella di inserire in un immobile privato una serie di uffici pubblici.
Ebbene, ciò essendo, non è consentito al Collegio sostituirsi all’ente locale nella valutazione, propria del merito e dell’opportunità amministrativa, in un giudizio di appropriatezza (e, dunque, anche di plausibilità, alla luce della norma citata del T.U. edilizia) della soluzione organizzativa dallo stesso scelta.
Troppe, invero, le variabili in ipotesi da considerare (fra le quali, ad esempio, quella della razionalità di collocare uffici pubblici in seno ad un contesto abitativo privato e quella della tollerabilità, dal punto di vista del conseguente impatto urbanistico, di questo nuovo insediamento di uffici pubblici nel dato contesto di zona), per le quali la controinteressata all’edificazione non ha fornito alcun elemento, ma soprattutto troppo aliene dal proprio di questo contesto valutativo giudiziario, che, seppure svolto in sede di giudizio di ottemperanza, non può scendere fino nel profondo di opzioni e determinazioni di puro merito amministrativo.
Quanto meno, peraltro, detta parte controinteressata, non ha qui fornito adeguati elementi di prova per restare sul piano del pur sempre possibile giudizio di legittimità della scelta insita nella soluzione adottata dal Comune nella fattispecie, di per sé altrimenti sindacabile dal punto di vista dell’eccesso o dello sviamento di potere (con finalità elusiva o violativa del giudicato).
Un sindacato, quest’ultimo, che comunque (è bene osservare) non sarebbe stato agevole (e, in ciò, una comprensibile difficoltà di detta parte controinteressata a fornire elementi di prova) giacchè la soluzione adottata dal Comune trova pur sempre un alleato nell’alveo dello spazio d’intervento (residuo) offerto dalla norma sopra ricordata.
Qui trovate la Sentenza integrale 

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