Nel comparto della sanità pubblica, anche a causa del blocco delle assunzioni, si è assisto al conferimento di moltissimi incarichi a tempo determinato ma anche all'affidamento di convenzioni con partita IVA ed infine a chiamate dirette.
Sulla question, molto complessa che si è determinata è intervenuta ora la Corte Costituzionale con sentenza n. 34 in data 27 dicembre che si è espressa in modo molto negativo come riportato qui appresso.
Il Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 ottobre 2016, iscritta al n. 32 del reg. ord. 2017, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, terzo (recte: quarto) comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 4, punto 1, e alla clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, e all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea.
Il rimettente richiama, in particolare, i princìpi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) nella sentenza del 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/18, Mascolo ed altri.
Con ordinanza dibattimentale del 23 ottobre 2018, che si allega, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi ad adiuvandum spiegati dalla Confederazione Generale Italiana del lavoro - CGIL, dalla Federazione Lavoratori della Funzione Pubblica - CGIL, e dalla Unione Italiana del Lavoro Federazione Poteri Locali - UIL FPL, in quanto soggetti estranei al giudizio principale e non titolari di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del medesimo, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti.
Non possono essere presi in considerazione, secondo la costante giurisprudenza della Corte, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione; e ciò sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità (ex multis, sentenza n. 276 del 2016).
Sono dunque inammissibili le deduzioni delle parti del giudizio a quo, costituitesi nel presente giudizio incidentale, che tendono ad ampliare il thema decidendum definito dall’ordinanza di rimessione.
Nel merito, le norme sono sempre censurate nel loro insieme, ma rispetto a tre diversi parametri.
Si tratta anzitutto dell’art. 10, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001, che è stato inserito dall’art. 4, comma 5, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, ed è stato abrogato dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), a decorrere dal 25 giugno 2015 (il d.lgs. n. 81 del 2015 non viene in rilievo, ratione temporis, nella specie, ma può comunque ricordarsi che all’art. 29, comma 2, lettera c, e 4, fa salvo anche per il personale sanitario quanto previsto dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001).
Il citato art. 10, comma 4-ter, esclude dall’applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001 i «contratti a tempo determinato del personale sanitario del medesimo Servizio sanitario nazionale, ivi compresi quelli dei dirigenti, in considerazione della necessità di garantire la costante erogazione dei servizi sanitari e il rispetto dei livelli essenziali di assistenza.[…] In ogni caso, non trova applicazione l’articolo 5, comma 4-bis».
Dunque, non trova applicazione la previsione (art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001) secondo cui, «qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato […]».
Oggetto di censura è poi anche l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo applicabile ratione temporis, e precisamente:
− il comma 5, primo e secondo periodo, a norma dei quali «In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative»;
− il comma 5-ter, secondo cui: «Le disposizioni previste dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando per tutti i settori l’obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere ai contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente per rispondere alle esigenze di cui al comma 2 e il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato» (comma abrogato dall’art. 9, comma 1, lettera e, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»;
− il comma 5-quater, in particolare nel primo periodo, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017, secondo cui: «I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale».
Il rimettente, con una generale censura poi specificata nella trattazione delle singole questioni, denuncia che queste norme consentono, senza limiti e misure preventive antiabusive e sanzionatorie, l’utilizzazione illegittima dei contratti a tempo determinato per il personale sanitario del Servizio sanitario nazionale per più di trentasei mesi; differenziano i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la pubblica amministrazione sanitaria, rispetto ai contratti a termine stipulati con datori di lavoro privati, o pubblici, come le fondazioni lirico-sinfoniche, escludendo senza ragioni oggettive i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come previsto dall’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, e senza un’adeguata misura risarcitoria, così ledendo i parametri costituzionali invocati.
La questione di legittimità costituzionale per disparità di trattamento rispetto alle altre categorie di lavoratori, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e al principio di eguaglianza e non discriminazione, è inammissibile.
La censura è del tutto priva di motivazione rispetto a entrambi i casi indicati come tertia comparationis. A parte la considerazione che si omette la necessaria indicazione delle disposizioni relative (ex multis, sentenza n. 18 del 2015), manca del tutto il confronto con le altre categorie richiamate. Si tratta, infatti, di rapporti o relativi ad apparati pubblici diversi, ovvero privatistici. Nel primo caso, pertanto, occorreva dimostrare la presunta omogeneità; nel secondo, poi, non vi è alcuna considerazione della specificità del settore pubblico, pure oggetto di numerose e approfondite decisioni da parte della giurisprudenza della CGUE e costituzionale, con riferimento in particolare alla necessità che l’accesso avvenga per concorso pubblico.
Sono anche inammissibili, per la genericità e la mancanza di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione sul punto, le censure di violazione degli artt. 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai già richiamati parametri interposti eurounitari, nonché all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato dell’Unione europea.
La questione relativa alla mancanza di misure sanzionatorie adeguate è poi sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost, in relazione alle clausole 4, punto 1, e 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, e alle relative decisioni della CGUE.
Va premesso che nelle more del giudizio incidentale è intervenuta la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro, che si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale del Tribunale ordinario di Trapani (richiamato dal rimettente). Essa si è occupata nuovamente della misura risarcitoria e in particolare della sua entità, affermando che «La clausola 5 dell’accordo quadro […] dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità […], accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
La decisione, in sostanza, ha ritenuto la compatibilità euronitaria delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072 − pronunciata nel giudizio nel corso del quale era intervenuta la sentenza della CGUE 7 settembre 2015, in causa C-53/04, Marrosu e Sardino − che, dopo aver ribadito il divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, ha affermato che il dipendente pubblico, a seguito della reiterazione illegittima dei contratti a termine, ha diritto al risarcimento del danno previsto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).
La questione dunque non è fondata.
Difatti, se da una parte, non può che confermarsi l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato − secondo la pacifica giurisprudenza euronitaria e nazionale −, dall’altra sussiste una misura sanzionatoria adeguata, costituita dal risarcimento del danno nei termini precisati dalla Corte di cassazione.