La Corte di Giustizia Europea il 1° giugno scorso ha emesso la sentenza n. C-529/15 concernente l’interpretazione della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Si tratta, come sempre di una sentenza molto articolata e be argomentata.
In sintesi la Corte ha ritenuto che l'articolo 17 della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, come modificata dalla direttiva 2009/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2009: "...orbene, l’articolo 2, punto 1, lettera b), della direttiva 2004/35 non prevede, riguardo ai danni coperti da un’autorizzazione, alcuna deroga generale idonea a sottrarli alla nozione di «danni ambientali». Detta disposizione prevede esclusivamente una deroga riguardante l’impatto negativo cui si applica l’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva 2000/60.
Quest’ultima disposizione prevede che gli Stati membri non commettono una violazione della direttiva qualora il fatto di non ripristinare il buono stato di un corpo idrico sotterraneo, il buono stato ecologico o, eventualmente, il buon potenziale ecologico dello stesso, oppure di non impedire il deterioramento dello stato di un corpo idrico superficiale o sotterraneo, derivi da nuove modifiche delle caratteristiche fisiche di un corpo idrico superficiale ovvero dalle alterazioni del livello del corpo idrico sotterraneo. Nessuna violazione può del pari essere contestata agli Stati membri allorché l’incapacità di impedire il deterioramento da un stato elevato ad un buono stato del corpo idrico superficiale derivi da nuove attività sostenibili di sviluppo umano.
L’applicazione di tale deroga presuppone che ricorrano le condizioni previste dall’articolo 4, paragrafo 7, lettere da a) a d), della stessa direttiva (v., in tal senso, sentenze dell’11 settembre 2012, Nomarchiaki Aftodioikisi Aitoloakarnanias e a., C‑43/10, EU:C:2012:560, punto 67, nonché del 4 maggio 2016, Commissione/Austria, C‑346/14, EU:C:2016:322, punti 65 e 66).
È indubbio che gli Stati membri sono tenuti a negare l’autorizzazione ai progetti idonei a provocare un deterioramento dello stato delle masse d’acqua, salvo ritenere che tali progetti rientrino nell’ambito della deroga prevista all’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva 2000/60 (v., in tal senso, sentenza del 1° luglio 2015, Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland, C‑461/13, EU:C:2015:433, punto 50).
Tale disposizione non attiene soltanto ai progetti soggetti ad autorizzazione. Infatti, essa riguarda ogni ipotesi di degrado delle masse d’acqua, dovuto o meno ad un impianto, e prevede i casi in cui, a fronte di tale degrado, gli Stati membri sono tuttavia dispensati dall’intervenire. Ne deriva che tale disposizione è priva di rilievo sulla stessa nozione di danno ambientale.
Tali osservazioni valgono in particolare nella controversia principale in cui l’autorizzazione alla gestione dell’impianto di cui trattasi è anteriore alla direttiva 2000/60 e la sua concessione non era pertanto subordinata, all’epoca, all’osservanza dei quattro criteri cumulativi di cui all’articolo 4, paragrafo 7, lettere da a) a d), della direttiva suddetta. Inoltre, dagli atti sottoposti alla Corte risulta che le fluttuazioni del livello del corso d’acqua, alle quali è stata imputata la sovramortalità dei pesci, deriverebbero dal normale funzionamento dell’impianto autorizzato.
Dal complesso delle suesposte considerazioni risulta che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che la direttiva 2004/35 e, in particolare, il suo articolo 2, punto 1, lettera b), dev’essere interpretata nel senso che osta ad una disposizione del diritto nazionale che escluda, in via generale e automatica, che il danno idoneo a incidere in modo significativamente negativo sullo stato ecologico, chimico o quantitativo, oppure sul potenziale ecologico delle acque di cui trattasi, sia qualificato come «danno ambientale», per il sol fatto di essere coperto da un’autorizzazione rilasciata conformemente al diritto nazionale medesimo.
Inoltre il Collegio ha ritenuto che nell’ipotesi in cui sia stata rilasciata un’autorizzazione in applicazione di disposizioni nazionali, senza il previo esame delle condizioni indicate all’articolo 4, paragrafo 7, lettere da a) a d), della direttiva 2000/60, il giudice nazionale non è tenuto a verificare d’ufficio se le condizioni previste in tale disposizione siano soddisfatte, ai fini dell’accertamento di un danno ambientale ai sensi dell’articolo 2, punto 1, lettera b), della direttiva 2004/35.
Qui trovate la sentenza integrale:
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