giovedì 30 giugno 2016

IL GIUDIZIO DI OTTEMPERENZA PER L'ESECUZIONE DEL GIUDICATO DA PARTE DELLA P.A.

Consiglio di Stato -Sala
E' noto il problema della difficoltà per alcuni di riuscire ad ottenere l'esecuzione del giudicato da parte delle pubbliche amministrazioni e in particolare degli enti locali.
Ora il Consiglio di Stato con la sentenza n. 2769 /2016 ha svolto un'ampia disamina della questione al fine di evitare comportamenti elusivi da parte della P.A.
E’ stato, al riguardo, chiarito, in estrema sintesi (trattandosi di ius receptum), che:
a) il giudizio di ottemperanza ha la precipua funzione di un controllo successivo del rispetto, da parte dell’Amministrazione, degli obblighi derivanti dal giudicato, al fine di attribuire alla parte vittoriosa in sede di cognizione l’utilità ivi accertata come spettantegli (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 30 agosto 2013, n. 4322);
b) tale verifica sull'esatta attuazione del giudicato implica la precisa individuazione dei contenuti dell’effetto conformativo derivante dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione, in esito all'interpretazione della sequenza causa petendi –petitum - decisum (Cons. St., sez. V, 14 marzo 2016, n.984);
c) con il peculiare rimedio in questione può essere lamentata non solo la totale inerzia dell’Amministrazione nell'esecuzione del giudicato, e, cioè, la mancanza di qualsivoglia attività esecutiva, ma anche la sua attuazione inesatta, incompleta o elusiva, per mezzo, cioè, dell’adozione di atti che violano o eludono il comando contenuto nella sentenza di cui si chiede l’esecuzione (cfr. Cons. St., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501, nonché la fondamentale sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 1984);
d) il provvedimento sopravvenuto ed emanato in dichiarata esecuzione del giudicato dev'essere impugnato, nel termine di decadenza, con il ricorso ordinario, che attivi, cioè, un nuovo giudizio di cognizione, quando se ne deduce l’illegittimità per la violazione di regole di azione estranee al decisum della sentenza da eseguire, mentre l’atto asseritamente emesso in violazione o in esecuzione del giudicato dev’essere impugnato con il ricorso per ottemperanza nel termine di prescrizione dell'actio iudicati, in quanto nullo ai sensi dell’art.21-septies l. n.241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b), del c.p.a. (Cons. St., sez. V, 23 maggio 2011, n. 3078), salve le regole sulla conversione del rito, in presenza dei relativi presupposti (Cons. Stato, Ad. Plen., 15 gennaio 2013, n. 2).
Ciò posto, occorre stabilire se si possa dedurre con una memoria difensiva l’elusione del giudicato, quando l’atto ‘sopravvenuto’ – di cui si lamenti tale natura – sia stato emesso dopo la proposizione del ricorso per ottemperanza (senza una rituale contestazione con atto notificato) e, dunque, occorre stabilire se in tal caso l’azione di giudicato resti procedibile.
Il Collegio ha ritenuto che – sulla base del tenore letterale delle disposizioni ad esso dedicate e delle finalità del rimedio in questione - occorre seguire la soluzione dell’ammissibilità e, in ogni caso, della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 c.p.a., pur se non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato, non potendosi ravvisare qualsivoglia preclusione o decadenza processuali in conseguenza della mancata impugnazione.
L’art. 112 c.p.a., infatti, si limita a stabilire le condizioni di ammissibilità del ricorso per ottemperanza e, per quanto qui interessa, richiede la formulazione della domanda di attuazione dei provvedimenti indicati al comma 2, mentre l’art.114, comma 4, c.p.a. descrive la latitudine dei poteri del giudice, in caso di accoglimento del ricorso.
La lettura coordinata e sistematica delle due disposizioni vincola l’interprete a slegare – almeno, in parte, ossia nei sensi di cui infra - l’esercizio dei poteri (d’ufficio) attribuiti al giudice dell’ottemperanza dall’art.114, comma 4, c.p.a dal principio della domanda, tranne che per i casi espressamente previsti.
Anzi, la lett. e) - sulla necessità di una specifica domanda per le astreintes - costituisce un ulteriore riscontro all’opzione ermeneutica secondo cui per l’esercizio degli altri poteri ivi previsti non è necessaria la richiesta del ricorrente, in coerenza con la tradizione dell’istituto (rimessa alle ricostruzioni del giudice amministrativo) e con il noto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
In altri termini, il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato e, quindi, della regola di azione stabilita con il dictum della decisione di cui si domanda l’esecuzione e, per un altro verso, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati all’art.114, comma 4, c.p.a.
La titolarità e l’esercizio di tali poteri si rivela, peraltro, del tutto funzionale alla compiuta attuazione del decisum (in un’ottica di piena effettività della tutela) e alla conseguente conformazione ad esso dell’azione amministrativa e, come tale, automaticamente implicata dalla proposizione dell’azione di giudicato.
Perché il ricorso per ottemperanza risulti idoneo ad investire il giudice adìto delle potestà cognitive e dispositive sopra indicate, è sufficiente che la causa petendi e il petitum siano coerenti con l’art.112 c.p.a. e risultino adeguatamente dettagliati nell’atto introduttivo del giudizio.
Quanto alla causa petendi, è sufficiente che il ricorrente indichi il provvedimento di cui chiede l’attuazione e deduca la sua mancata esecuzione, mentre, in ordine al petitum, basta che, nelle conclusioni, chieda, senza l’uso di formule sacramentali, l’adozione dei provvedimenti più utili per disporre l’ottemperanza.
Ne consegue che, nell’ipotesi in cui sia sopravvenuto (al giudicato ed al ricorso d’esecuzione) un provvedimento che il ricorrente reputi violativo o elusivo del decisum, non è necessaria la sua formale impugnazione perché il giudice dell’ottemperanza sia ritualmente investito del potere di dichiararne la nullità, ai sensi del combinato disposto degli artt.21 septies, l. n. 241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b), c.p.a.
Se l’atto elusivo è stato emesso prima della proposizione del ricorso, non è indispensabile che il ricorrente indichi, nella sua epigrafe, gli estremi del provvedimento sopravvenuto come oggetto di impugnazione (né che ne deduca esplicitamente l’invalidità radicale, nel corpo dell’atto, né, infine, che nelle conclusioni domandi formalmente la declaratoria della sua nullità), mentre – se l’atto elusivo è stato emesso nel corso del giudizio d’ottemperanza – per la sua contestazione non occorre un atto notificato, bastando comunque una memoria difensiva (non rilevando in questa sede verificare il perimetro dei poteri del giudice e l’ambito di applicazione dell’art. 73, comma 3, del c.p.a., quando il ricorrente nulla abbia dedotto avverso l’atto emesso nel corso del giudizio d’ottemperanza, che risulti elusivo).
Compete, in definitiva, al giudice, una volta riscontrato il carattere violativo o elusivo (del giudicato) del provvedimento adottato dall’Amministrazione dopo che la decisione da eseguire è divenuta irrevocabile e che sia stato proposto il giudizio d’ottemperanza, adottare tutti i provvedimenti, tra quelli elencati all’art. 114, comma 4, c.p.a., che risultino strumentali alla più compiuta attuazione delle statuizioni contenute neldictum giudiziale, ivi compresa, ovviamente, la dichiarazione della nullità dell’atto sopravvenuto con esso confliggente.
Particolarmente significativo, in tal senso, risulta altresì il confronto tra l’art. 31, comma 4, del c.p.a. (che l’ultimo periodo dichiara espressamente inapplicabile al giudizio d’ottemperanza, che così non è sottoposto al principio dispositivo che connota in termini generali l’azione di nullità in sede cognitoria), e l’art. 114, comma 4, lett. b), del c.p.a.
Tale confronto evidenzia la diversa modulazione del potere d’ufficio del giudice di dichiarare la nullità in cui si imbatta nella decisione di una causa: nel primo caso, infatti, il rilievo d’ufficio è un’eccezione, rigorosamente delimitata, al principio della domanda che, in linea di massima, informa di sé anche l’art. 31; nel secondo, viceversa, esso è regola fondamentale e ineludibile del giudizio ex art. 114, tanto che il legislatore ha disposto che il principio della domanda (evidentemente rispetto alla nullità di un atto sopravvenuto) non trova applicazione in sede di ottemperanza, neppure in quei sensi attenuati in cui esso è stato tratteggiato ai fini dell’azione cognitoria ex art. 31.
Ne consegue, in ultima analisi, che la mancata proposizione, con atto notificato, di una domanda intesa all’accertamento della nullità del provvedimento sopravvenuto (ed elusivo del decisum di cui si chiede l’attuazione) non impedisce lo scrutinio del merito dell’azione di giudicato e, soprattutto, non preclude al giudice la declaratoria (d’ufficio) della nullità dell’atto elusivo.
La sentenza completa la trovate qui:

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