Le politiche contro la povertà nel nostro Paese sono sempre state politiche locali, attivate dai comuni insieme con il volontariato. La prima politica nazionale contro la povertà fu la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento durante il governo Prodi, su iniziativa di Livia Turco in qualità di Ministro della Solidarietà Sociale, su proposta della Commissione nazionale contro la povertà della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il decreto legislativo 18 giugno 1998 ha introdotto in via sperimentale il Reddito Minimo d’Inserimento (RMI) in 39 comuni italiani rappresentativi di tutto il territorio nazionale: 6 nel Nord, 11 nel centro e 22 nel Mezzogiorno. I comuni erano titolari della sperimentazione e ad essi furono devolute le risorse necessarie da Fondo Nazionale per le Politiche Sociali.
Circa 26 mila tra famiglie e singole persone con un reddito non superiore alla soglia di povertà, hanno ricevuto un contributo per uscire dalla povertà e dall’esclusione sociale.
Si tratta di una misura attiva, che contrasta l’assistenzialismo perché l’integrazione al reddito è accompagnata da un programma di reinserimento sociale, attraverso l’accettazione di un lavoro o di un percorso formativo, vincolante per accedervi.
La sperimentazione ha coinvolto il 4% dell’intera popolazione italiana ed era costata 476 miliardi di lire. Furono molto significative l’esperienze condotte a Napoli (nei Quartieri Spagnoli in cui il Comune stipulò un patto con le mamme di quel quartiere medesimo affinchè inviassero i figli a scuola, contrastando così l’abbandono scolastico), a Reggio Calabria, a Rovigo, a Genova. Ci furono anche gli insuccessi come nel caso di Enna in cui ci fu una rivolta da parte della popolazione nei confronti degli abusi di chi utilizzava quella misura senza essere povero, confermando così che il problema cruciale è quello di riuscire ad assicurare l’accertamento reale del reddito della persona e come evitare la confusione tra reddito di inserimento e l’ammortizzatore sociale di chi è disoccupato.
La sperimentazione fu valutata nei suoi esiti da una commissione tecnica di valutazione presieduta dalla Prof.ssa Chiara Saraceno. I risultati di tale valutazione sono stati trasmessi al Parlamento che però non li ha mai discussi. La commissione ha evidenziato successi e criticità ed ha indicato nella buona pratica amministrativa e nella definizione stringente di programmi di reinserimento sociale la strada efficace da perseguire. La sperimentazione ha evidenziato l’importanza dell’ accertamento reale del reddito delle persone e la necessità che l’RMI non sia confuso con uno strumento di lotta alla disoccupazione e dunque deve configurarsi non come sostitutivo agli ammortizzatori sociali ma come misura di ultima istanza.
La povertà in Italia non accenna a fermarsi ed anzi continua a colpire in particolare giovani e minori del nostro Paese.
L’introduzione del Reddito di Inclusione (REI), previsto dalla Legge delega sulla povertà in discussione al Senato, rappresenterebbe una importante innovazione strutturale per il nostro Paese, specie per quanto riguarda i servizi di presa in carico dei beneficiari e delle attività di inclusione sociale e lavorativa. E’ però una innovazione che necessita di risorse certe e graduali sino a coprire entro un tempo definito e attraverso un Piano pluriennale, l’universo delle persone in povertà assoluta.
Il Governo nella presentazione della Legge di bilancio 2017-19 aveva previsto un aumento del Fondo contro la povertà di 500 milioni di euro a partire dal 2018.
Le dichiarazione delle settimane scorse da parte di esponenti del Governo lasciavano però prefigurare un incremento di 500 milioni di euro già a partire dal 2017.
Data l’urgenza della situazione sarebbe stato opportuno dare un segnale chiaro anche attraverso il potenziamento dei servizi territoriali.
L’Alleanza contro la povertà in Italia (una associazione impegnata molto su questo tema) aveva chiesto che già dal prossimo anno, nella Legge di Bilancio fossero incrementate le risorse del fondo per la lotta alla povertà ed esclusione sociale affinché si potessero destinare le necessarie risorse a graduale incremento del reddito di inserimento sociale.
Il decreto legislativo 18 giugno 1998 ha introdotto in via sperimentale il Reddito Minimo d’Inserimento (RMI) in 39 comuni italiani rappresentativi di tutto il territorio nazionale: 6 nel Nord, 11 nel centro e 22 nel Mezzogiorno. I comuni erano titolari della sperimentazione e ad essi furono devolute le risorse necessarie da Fondo Nazionale per le Politiche Sociali.
Circa 26 mila tra famiglie e singole persone con un reddito non superiore alla soglia di povertà, hanno ricevuto un contributo per uscire dalla povertà e dall’esclusione sociale.
Si tratta di una misura attiva, che contrasta l’assistenzialismo perché l’integrazione al reddito è accompagnata da un programma di reinserimento sociale, attraverso l’accettazione di un lavoro o di un percorso formativo, vincolante per accedervi.
La sperimentazione ha coinvolto il 4% dell’intera popolazione italiana ed era costata 476 miliardi di lire. Furono molto significative l’esperienze condotte a Napoli (nei Quartieri Spagnoli in cui il Comune stipulò un patto con le mamme di quel quartiere medesimo affinchè inviassero i figli a scuola, contrastando così l’abbandono scolastico), a Reggio Calabria, a Rovigo, a Genova. Ci furono anche gli insuccessi come nel caso di Enna in cui ci fu una rivolta da parte della popolazione nei confronti degli abusi di chi utilizzava quella misura senza essere povero, confermando così che il problema cruciale è quello di riuscire ad assicurare l’accertamento reale del reddito della persona e come evitare la confusione tra reddito di inserimento e l’ammortizzatore sociale di chi è disoccupato.
La sperimentazione fu valutata nei suoi esiti da una commissione tecnica di valutazione presieduta dalla Prof.ssa Chiara Saraceno. I risultati di tale valutazione sono stati trasmessi al Parlamento che però non li ha mai discussi. La commissione ha evidenziato successi e criticità ed ha indicato nella buona pratica amministrativa e nella definizione stringente di programmi di reinserimento sociale la strada efficace da perseguire. La sperimentazione ha evidenziato l’importanza dell’ accertamento reale del reddito delle persone e la necessità che l’RMI non sia confuso con uno strumento di lotta alla disoccupazione e dunque deve configurarsi non come sostitutivo agli ammortizzatori sociali ma come misura di ultima istanza.
La povertà in Italia non accenna a fermarsi ed anzi continua a colpire in particolare giovani e minori del nostro Paese.
L’introduzione del Reddito di Inclusione (REI), previsto dalla Legge delega sulla povertà in discussione al Senato, rappresenterebbe una importante innovazione strutturale per il nostro Paese, specie per quanto riguarda i servizi di presa in carico dei beneficiari e delle attività di inclusione sociale e lavorativa. E’ però una innovazione che necessita di risorse certe e graduali sino a coprire entro un tempo definito e attraverso un Piano pluriennale, l’universo delle persone in povertà assoluta.
Il Governo nella presentazione della Legge di bilancio 2017-19 aveva previsto un aumento del Fondo contro la povertà di 500 milioni di euro a partire dal 2018.
Le dichiarazione delle settimane scorse da parte di esponenti del Governo lasciavano però prefigurare un incremento di 500 milioni di euro già a partire dal 2017.
Data l’urgenza della situazione sarebbe stato opportuno dare un segnale chiaro anche attraverso il potenziamento dei servizi territoriali.
L’Alleanza contro la povertà in Italia (una associazione impegnata molto su questo tema) aveva chiesto che già dal prossimo anno, nella Legge di Bilancio fossero incrementate le risorse del fondo per la lotta alla povertà ed esclusione sociale affinché si potessero destinare le necessarie risorse a graduale incremento del reddito di inserimento sociale.
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